
Nei mesi scorsi ho letto-divorato un bellissimo libro, Trieste. Un romanzo documentario di Daša Drndić, trad. Ljiljana Avirović (Bompiani, 2015), che consiglio vivamente. Non fatevi ingannare troppo dal titolo, non è un romanzo su Trieste: il titolo originale dell’opera è Sonnenschein, cioè «sunshine», «la luce del sole» (Trieste è il titolo dell’edizione inglese, ndr), e narra la storia di una famiglia goriziana ebrea convertita al cattolicesimo, e in particolare la vita di una donna di questa famiglia, Haya Tedeschi, la sua ingenua giovinezza sotto l’occupazione tedesca, la storia d’amore con un criminale nazista del quale ignora passato presente e responsabilità (non un criminale nazista qualsiasi – sempre che ve ne fossero, di qualsiasi – ma il gran macellaio di Treblinka Kurt Franz), la «scomparsa» del figlio semi-clandestino avuto con quest’ultimo, il percorso lungo e travagliato che la porterà ad acquisire consapevolezza del passato e, soprattutto, la ricerca del figlio, che le fu strappato dai nazisti per essere affidato a una clinica del progetto Lebensborn. Una storia di fantasia ma ben piantata a terra, che si intreccia alla perfezione con la storia del tempo, che fa emergere le storie vere delle bambine e dei bambini Lebensborn e, con esse, tutta la tragedia (e persino la farsa) della Shoah. Un romanzo che a tratti si fa documentario, citando fonti storiche e fatti reali, gli atti dei processi di Norimberga, le criminali imprese naziste nella «Zona d’operazioni del litorale adriatico» – tra queste, la Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio attivo in territorio italiano – e persino tutti i nomi dei 9.000 ebrei italiani deportati con l’aiuto dei fascisti nostrani e sterminati nei campi nazisti.
Il romanzo (444 pagine nell’edizione tascabile del 2016) è denso e pieno di storie (il sotto-sottotitolo recita «dietro ogni nome si nasconde una storia»), di riferimenti a fatti noti e ad alcuni più oscuri. Tra i più oscuri (o per lo meno, a me più oscuri) ci sono quelli che riguardano il ruolo della Croce Rossa internazionale, alla quale Drndić dedica parole che sono come piombo. L’8 maggio era (è) la giornata della Croce Rossa e da allora a oggi – come capita ogni anno ad Haya Tedeschi – ho ricevuto per vie traverse gli auguri dell’organizzazione e diverse richieste di donazione, l’ultima proprio stamattina. Ho pensato dunque di sdebitarmi, prendendo in prestito le parole di Drndić:
La Croce Rossa arriva sempre in ritardo, o non arriva proprio. La Croce Rossa ha parecchio da fare, ovunque nel mondo. La Croce Rossa si occupa delle attività più disparate, in prevalenza umanitarie, difficilmente riesce a concentrarsi su altre attività, per lo più individuali, così il lavoro rischia spesso di essere dispersivo, incostante, e soprattutto la Croce Rossa non si schiera mai. L’imperativo della Croce Rossa è mantenere la propria generale, globale neutralità. Nei confronti della Storia e degli esseri umani […] Da vent’anni la Germania si oppone all’apertura degli archivi di Bad Arolsen*. La Croce Rossa internazionale dichiara con orgoglio di consentire già da dieci anni la consultazione pubblica dei propri archivi, senza menzionare i precedenti cinquanta in cui quegli stessi archivi sono stati tenuti segreti, e durante i quali c’è stato il tempo sufficiente per una «riorganizzazione» dei dati, per la loro cancellazione o per la distruzione di quelle prove che avrebbero potuto compromettere tutta la (non) attività della Croce Rossa internazionale durante la guerra. Ognuno si para il culo per quanto può, compresa la Croce Rossa internazionale. Compresa la Chiesa, in particolare quella cattolica.
*nota: gli archivi di cui si parla nel testo sono il più grande archivio al mondo sulle vittime del nazismo, situato nella cittadina tedesca di Bad Arolsen e gestito dal Servizio di ricerca internazionale della Croce Rossa. Nel 2006, infine, gli archivi sono stati aperti.
E questo è solo un frammento (non solo del libro, ma anche di ciò che riguarda la Croce Rossa). Il mio consiglio è di andare oltre la citazione, perché il libro – che a tratti fa davvero molto male – è una grande opera di letteratura contemporanea, e di storia, e chiede di essere letta.
Parentesi critica. Devo fare un appunto ai redattori, e in particolare a chi si è occupato di redigere il testo della quarta di copertina, dove compare un «refuso storico» (passatemi il termine) bello grande. Vi si scrive, riguardo al genocida Franz, che «era già a capo del campo di lavoro di Treblinka». Chiunque abbia studiato la storia della Shoah sa bene, e Drndić lo sa benissimo e non manca di sottolinearlo, che Treblinka non fu mai un «campo di lavoro». A Treblinka non si lavorava, a Treblinka si entrava per essere sterminati: le deportate e i deportati giungevano alla falsa stazione (sì, i nazisti avevano costruito una falsa stazione, con i cartelli, gli orologi, la biglietteria, i numeri dei binari, gli orari dei treni in partenza e in arrivo, e le SS erano vestite da lavoratori delle ferrovie), venivano spogliati degli ultimi beni, portati al campo, spogliati e condotti alle camere a gas, sterminati, bruciati, dopodiché si procedeva con il «carico» successivo. Così per tredici lunghi mesi, fino a che prima una rivolta, poi l’avvicinarsi dell’Armata rossa, non costrinsero il comando nazista a chiudere (e distruggere) il campo. Vi morirono circa 900.000 persone.
L’ha ripubblicato su nic*.
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