Spotify e diritti

Leggo discussioni intorno a spotify e diritti sul birdsite (tramite nitter) e mi cadono le braccia. La maggior parte degli interventi di chi si sente in dovere di dir la sua, colto con la coda in fiamme, si concentra sulle condizioni di profittabilità del mercato discografico e attacca a testa bassa le alternative ai servizi di streaming, definendole economicamente fallimentari. E lo stesso rancore da economisti d’accatto viene indirizzato verso quei servizi – come bandcamp – che pure offrono l’ascolto di musica in rete, ma lo accompagnano a un modello di business diverso da quello di spotify (diverso dal brokeraggio dei dati degli utenti cioè). Così facendo, in sostanza, finiscono per far da cassa di risonanza alla campagna di lancio dello stesso spotify, il quale vendette la propria importanza e «necessità» ai capitalisti di ventura e alle major affermando di essere l’unica soluzione alla crisi delle vendite e alla pirateria (dal cui brodo pure nasceva, sfruttando archivi scaricati illegalmente). Che poi è anche vero che il mercato discografico ha beneficiato dei servizi di streaming «modello spotify», ma stiamo parlando del mercato di riferimento delle grandi multinazionali e degli artisti già milionari: la maggioranza degli artisti presenti sulla piattaforma prende le briciole, e chi protesta viene minacciato di azioni legali. E allora mi sorge spontanea una domanda: ma quando mai ce (e ve) ne è fregato un cazzo dei profitti dell’industria discografica?

E per concludere – perché la ciliegina sulla torta ci vuole sempre – non c’è in ballo solo la questione dei diritti (e quella dei nostri dati): spotify riesce a essere, sempre e comunque, vera fogna.

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